Sono alcuni anni che le società occidentali (per occidentale intendo i paesi europei, il Nord America, l’Australia e la Nuova Zelanda) stanno attraversando un difficile periodo. Non solo la strisciante e infinita crisi economica che dal 2008 ci sta mettendo in ginocchio, nonostante governi e media abbiano deciso di non nominare il problema e sperare che la gente si abitui a questa nuova ‘normalità’. Strategia che tra l’altro sta funzionando.
I paesi occidentali stanno attraversando anche una profonda crisi di identità. Un problema quello della crisi di identità che ha travolto in pieno le generazioni più giovani, e che poi va progressivamente sfumando verso le fasce più mature che non ne sono comunque immuni.
La propaganda di media, giornali, televisione, cinema, il tam tam battente della persuasione strisciante operata oggi in maniera molto efficace anche grazie all’uso dei social media sta avendo un effetto ormai visibile a tutti sulla nostra società.
Ricordiamo che i social media sono in grado non solo di diffondere notizie manipolate ad arte e mirate in base alla persona a cui vengono inviate, ma anche di rilevarne l’impatto sulla popolazione (come reagisce il “follower A” a questa serie di notizie che gli abbiamo proposto? Cosa scrive sui suoi social? Si deprime? Si arrabbia? Se ne frega…?), per poi raffinare ulteriormente i successivi messaggi, ormai sempre più mirati ed efficaci.
La libertà di parola e di pensiero vengono oggi messe direttamente sotto accusa. E non tanto perché lo vieta la legge (anche se in molti paesi, Germania, Inghilterra e Francia in testa ormai esprimersi liberamente può costare la visita di qualche reparto speciale delle forze di polizia), ma perché la popolazione viene educata a non dire, e nemmeno a pensare, le cose che non sono allineate al pensiero unico ufficiale.
In Francia facebook ha iniziato a collaborare nel giugno 2019 con le forze di polizia e fornirà dati utili ad identificare chi esprime opinioni diverse da quelle approvate dallo stato. Il newspeak attuale le definisce utilizzando il neologismo ‘hate speech’ per spaventare le masse che così non si ribellano a quella che è una limitazione della libertà di pensiero e di espressione. Quando vi dicono che noi sì che siamo fortunati perché dalle nostre parti c’è liberta e democrazia pensateci bene prima di crederci.
Ma continuiamo.
È la società delle lacrime facili. Uomini, donne, politici, sportivi, star del cinema, personaggi pubblici, viviamo ormai all’interno di un reality dove il pianto in pubblico è accolto con favore. Un reality dove un politico piange a comando davanti alle telecamere come un consumato attore. Si piange perché ci si commuove, perché ci si indigna, perché ci si sente offesi. Le lacrime in tasca sono un accessorio ormai diffusissimo. Almeno tra i personaggi pubblici. L’importante è piangere e farsi vedere mentre si versano lacrime fintissime.
È la società in cui si vogliono confondere le acque tra quello che è maschile e quello che è femminile. Si cerca di diffondere la cultura dei bagni pubblici gender free, degli spogliatoi delle piscine in cui ‘se lui si sente donna allora è una donna a tutti gli effetti e può cambiarsi con le donne’, la cultura del ‘transgenderism’ sin da giovanissimi (non pensiate che stiamo esagerando).
È la società in cui è vietatissimo esprimere idee critiche nei confronti del fenomeno (pilotato e pianificato da tempo) dell’immigrazione di massa, in cui essere accusati di razzismo equivale ad una scomunica papale. Vietato criticare. Non vietato commettere dei crimini, ma vietato esprimere delle opinioni…
È la società in cui sono stati coniati neologismi, o è stato ri-attribuito il significato a termini già esistenti come ‘sovranismo’ o ‘populismo’. Ormai accusare qualcuno di essere un sovranista e/o un populista equivale a definirlo un criminale. Eppure non è così, non deve essere così. Ma è così.
È la società in cui quello che solo fino a pochi anni fa era oggettivamente considerato brutto (ad esempio donne obiettivamente obese, dal punto di vista medico in primis) oggi viene proposto come normale, o addirittura bello. Non so quanto questa comunicazione poi davvero abbia un impatto su quello che piace veramente, ma il tentativo è assolutamente lì davanti agli occhi di tutti. Ormai non c’è produttore di lingerie e costumi da bagno che non faccia sfilare in mezzo alle normali modelle dal fisico slanciato una o due ‘modelle’ sopra gli ottanta chili. In nome della ‘diversity’, della ‘inclusivity’ e chiaramente anche nella speranza di vendere qualcosa. ‘Diversity’ e ‘inclusivity’ sono ormai entrati a far parte del linguaggio propagandistico dei media. Il termine ‘woke’ – che sta ad indicare una persona attenta alle ingiustizie sociali – è ormai diffuso ed utilizzato capillarmente soprattutto nelle società angolofone.
Grossi brand hanno lanciato campagne pubblicitarie che nulla hanno a che vedere con i prodotti che vendono, per spingere sul tema della diversity e della inclusivity. Recenti esempi sono le campagne video di Gillette (che pare abbia perso molto fatturato per colpa di questo video) e di Sprite. Ma ce ne sono ormai a decine, se avete voglia di cercarveli sul web.
È la società in cui ci si sente offesi e indignati per aver sentito esprimere opinioni diverse, non illegali intendiamoci, ma diverse. La diversità in questo caso va respinta, a differenza di altre diversità che invece andrebbero accolte. In fin dei conti siamo delicati come dei fiocchi di neve (Snow Flakes) e non possiamo accettare di vedere i nostri sentimenti feriti dalle idee di qualcuno che non la pensa come noi…
Qui dalle nostre parti la cosa non è ancora partita in pieno, ci stanno lavorando, ma in paesi come gli stati uniti e l’inghilterra è partita, eccome.
Professori universitari licenziati perché denunciati dagli studenti per aver espresso idee non abbastanza politically correct, medici licenziati per non aver usato i pronomi ‘gender free’ scelti dai pazienti, comici che non possono più esibirsi in pubblico per aver fatto battute considerate ‘disriminatorie’, interi canali social su Youtube, profili facebook seguiti da milioni di persone cancellati per non essersi allineati ma anzi aver espresso opinioni critiche.
Le prime pagine dei quotidiani online, dei magazines di moda e di costume sono infarcite di notizie messe insieme per rafforzare un determinato messaggio. Si deve spingere sul razzismo? Allora mettiamo insieme TUTTE le notizie sul razzismo possibili immaginabili per far pensare che siamo in mezzo ad una vera e propria emergenza. Violenza sulle donne? Idem, tutto quello che si può trovare va pubblicato nello stesso momento, è una emergenza nazionale in fin dei conti. Discriminazioni verso una determinata minoranza? Stesso trattamento, tanto le agenzie battono migliaia di notizie ogni giorno, sarà poi così difficile aggregarle in maniera da fornire il quadro della situazione che ci hanno detto di dare in pasto al pubblico? E poi mettiamoci anche delle storie positive, cercatemi qualche immigrato irregolare che ha compiuto un gesto nobile come restituire un portafogli smarrito o cose simili, che aiuta a far passare il messaggio… creiamo simpatia per le cosiddette minoranze e al tempo stesso etichettiamo come mostri quelli che criticano questa politica. Dovrebbe funzionare.
Politically correct, woke culture, hate speech, cancel culture, diversity e inclusivity sono solo alcuni dei neologismi che stanno marchiando a fuoco la nostra società contemporanea. I primi effetti li stiamo vedendo, la società sta diventando sempre più isterica, irritabile, le persone sono propense ad accettare passivamente limitazioni della propria libertà di espressione non sancite dalla legge ma – badate bene – dai social media, corporations che hanno base in California. I tentativi di imporre sempre di più questa nuova cultura anche dalle nostre parti sono molto chiari.
Funzionerà? Forse no, se ci rifiuteremo di adeguarci e se capiremo che ogni persona deve pensare con la propria testa, e che avere una visione critica del mondo che ci circonda non è un problema. Anzi.
ADVERSUS