“Dal punto di vista della vita di lavoro conviene in genere evitare reazioni avventate e limare la carica emotiva del conflitto interpersonale, cercando sempre di mantenere un buon livello di lucidità mentale. Qualunque azione “forte” si pensa di voler intraprendere conviene discuterla con altri prima di metterla in atto.”
Di mobbing si parla – per fortuna o per sfortuna – sempre più spesso, e se ne parla sempre più apertamente. Gli abusi – perché di veri e propri abusi e violenze psicologiche si tratta – sul posto di lavoro, o a scuola, hanno ormai un nome e chi ne è vittima deve sapere di non essere solo. Il mobbing è un fenomeno che va contrastato ed isolato, e per farlo bisogna utilizzare i mezzi più adatti ed efficaci. Ne parliamo con il Prof. Andrea Castiello d’Antonio, psicologo e psicoterapeuta, Professore Straordinario presso l’Università Europea di Roma. Dipartimento di Scienze Umane, Ambito di Psicologia.
Ci può dare una definizione di mobbing? Quando un comportamento ostile sul posto di lavoro, o a scuola, può essere definito mobbing? Cosa caratterizza e contraddistingue il mobbing?
Sia il mobbing, sia il bullying (il termine che più spesso si adopera per designare il “bullismo” nel mondo della scuola) sono situazioni basate sui fenomeni di violenza interpersonale che avvengono all’interno di gruppi relativamente stabili come sono il team di lavoro e la classe scolastica. Tali fenomeni sono a loro volta caratterizzati dall’isolamento sociale della “vittima”, dagli attacchi e dalle aggressioni di tipo verbale, sociale e addirittura fisico, da altre forme di violenza come le calunnie e le minacce (quindi aggressioni dirette ed esplicite). Anche le “voci di corridoio” artatamente poste in essere per danneggiare la reputazione e l’immagine di una persona, sia essa adulta o in età evolutiva.
Il termine Mobbing deriva dal verbo inglese to mob che significa attaccare, assalire, accerchiare, e dal sostantivo mob (folla che tumultua, banda di delinquenti, gentaglia, plebe): il primo ad utilizzarlo è stato l’etologo Konrad Lorenz nel contesto degli studi sull’aggressività di animali della stessa specie.
É in Svezia, negli Anni Settanta, che alcuni studiosi hanno utilizzato il concetto di mobbing nel contesto dell’ostilità riscontrata in gruppi di studenti: tali situazioni sono poi state meglio identificate per mezzo del concetto di bullismo, da bullying (tiranneggiare, fare il prepotente, agire con prepotenza, angariare).
Successivamente il mobbing che avviene nel contesto organizzativo è stato identificato in modo preciso ed esteso da diversi studiosi. Assegnare un nome e designare un fenomeno aiutano a definirlo, a renderlo esplicito e visibile e soprattutto riconoscibile: ciò rappresenta il passo fondamentale e preliminare per una sua gestione e per ipotizzare un percorso di prevenzione o di cura della situazione disfunzionale e delle persone che in essa vivono.
Molte vittime di mobbing, anche in età adulta, lo sono state anche in età più giovane, magari in ambienti totalmente diversi, e con persone diverse. Senza voler minimamente togliere alcune responsabilità, e soprattutto senza voler trovare scusanti, le chiediamo però se ci sono persone che, per qualche motivo, sono più predisposte rispetto ad altre a diventare vittime del mobbing.
Spesso i mobbizzati sono da ricercare tra le persone più attente, scrupolose, auto-motivate, precise e responsabili, ma anche in qualche modo “diverse” dalla generalità degli “altri” (siano essi i compagni di scuola che i colleghi di lavoro). L’isolamento sociale, e una certa inclinazione ad essere eccessivamente riservati e timidi, può contribuire a farli visualizzare come una potenziale “vittima”, così come (ad esempio) una donna in un ufficio di tutti uomini può essere presa come “bersaglio” di angherie e soprusi.
In generale si deve dire che la vittima è scelta dal mobber e/o dal “branco” degli assalitori sulla base di una sorta di intuizione rispetto alla sua fragilità e incapacità di difendersi. In tale prospettiva, è la persona tendenzialmente introversa che si trova a mal partito, perché sono proprio quelle capacità sociali, di affermazione di se stesso e di reazione verso gli altri che mancano o sono ridotte. Quindi è possibile che un bambino poco sicuro di sé, timido, solitario, che magari vorrebbe vivere una vita scolastica calma e tranquilla, dedicandosi allo studio e ai giochi con pochi compagni fidati, si trovi a scuola accerchiato da soggetti attivi sì ma anche molto prepotenti e violenti che in certo senso lo deridono o lo attaccano proprio in quanto è fatto così… La stessa persona, in età adulta, potrebbe trovarsi di nuovo in una situazione simile, soprattutto se non ha sviluppato quelle capacità di auto-difesa e di proposizione “assertiva” di se stesso che prevengono l’aggressione del mobber.
Il mobbing a scuola. I bambini sono notoriamente ‘cattivi’ e molto facilmente individuano un bersaglio contro il quale scagliarsi. Quali i consigli che lei può dare ad un genitore il cui figlio è vittima del mobbing a scuola? Come deve comportarsi, e cosa deve dire al proprio figlio/a per insegnargli a difendersi?
Sicuramente i fenomeni di aggressività nel contesto scolastico sono evidenti e sotto gli occhi di tutti, avendo anche coinvolto sempre più spesso generazioni via via più giovani (oggi si parla persino di “bande” di preadolescenti). Eviterei, però, di definire i bambini “cattivi” poiché tale etichetta non è opportuna e può facilmente confondere le acque. I bambini sono spesso il riflesso dei climi familiari e dei sistemi educativi in cui sono immersi: ad esempio, bambini nervosi o aggressivi – al di là di problemi di temperamento – spesso riflettono con il loro modo di fare tensioni che vivono nella famiglia. In ogni caso, il vero e proprio “bullismo” è qualcosa di diverso dal bambino sfidante, nervoso, attaccabrighe, che tende a prendere in giro i coetanei. Nel bullismo si attua un vero e proprio attacco concentrico verso il più debole, il quale è deriso in modo pesante, isolato, ostacolato, e così via.
Il primo passo da parte dei genitori è rendersi conto di ciò che il figlio o la figlia sta vivendo. Ciò non è scontato: genitori distratti, o figli eccessivamente riservati, possono render del tutto invisibile la situazione di disagio e sofferenza. Si tratta poi di favorire nel ragazzo/a la comunicazione di ciò che sta avvenendo, tenendo presente un fatto apparentemente paradossale: la vittima del bullismo si vergogna di dire persino in famiglia ciò che subisce!
Comprensione affettuosa e vicinanza emotiva aiutano il bambino o la bambina a parlare di ciò che accade e di come si sente nel vivere la situazione. A questo punto si tratta di rinforzare i lati migliori (più solidi) del soggetto, senza assolutamente sminuire la situazione che vive, né trattarlo come se ingigantisse un piccolo problema (che per lui è, sicuramente, enorme!).
Il secondo livello di intervento è nei confronti della scuola. E’ necessario andare a parlare con i responsabili – dalla preside agli insegnanti – dichiarando senza mezzi termini la situazione di violenza e sollecitando interventi atti a riportare la situazione della classe nei limiti della convivenza civile. Se la scuola non si attiva in tal senso, è opportuno compiere passi formali di denuncia chiara e circostanziata della situazione. Non dimentichiamo che le istituzioni educative hanno l’obbligo di tutelare la salute psicofisica dei discenti.
Il mobbing sul posto di lavoro. Ci sono delle istanze alle quali per fortuna è possibile rivolgersi per farsi tutelare, ma dal punto di vista psicologico, interpersonale, come si deve comportare la vittima di mobbing sul posto di lavoro per ‘farsi rispettare’? Cosa consiglia in qualità di psicologo, psicoterapeuta, ed esperto di questo problema?
Sulla base di una presa di coscienza che sia la più ampia possibile – anche indirizzata a porsi la domanda se si tratta davvero di mobbing, e quale possa eventualmente essere la propria personale responsabilità in tutto ciò che accade – il soggetto dovrebbe innanzi tutto fare ogni cosa per mantenere salda la fiducia in se stesso e il senso della propria autostima.
Ciò significa non chiudersi in se stesso, non colpevolizzarsi, parlare il più possibile con persone fidate, ricercando anche nel contesto di lavoro “alleanze” valide e di supporto. Con le persone con cui si parla sarà anche più facile capire se la persecuzione è reale e se deriva da cause specifiche tra le quali potrebbe esserci il comportamento stesso della persona. Ma fare autocritica non deve significare colpevolizzarsi!
Dal punto di vista della vita di lavoro conviene in genere evitare reazioni avventate e limare la carica emotiva del conflitto interpersonale, cercando sempre di mantenere un buon livello di lucidità mentale. Qualunque azione “forte” si pensa di voler intraprendere conviene discuterla con altri prima di metterla in atto.
Si deve però fare attenzione a non cadere nelle situazioni di “doppio mobbing” nelle quali è la famiglia stessa, o il nucleo degli amici, a non poterne più di ascoltare le doglianze del soggetto, finendo con il farlo sentire, appunto, mobbizzato una seconda volta, perché incompreso e/o escluso.
Vi è poi l’aspetto strategico che inizia con il documentarsi sul mobbing e sullo stress correlato al lavoro, fino al raccogliere tutta la documentazione su ciò che accade sul posto di lavoro, anche facendosi mettere per iscritto le richieste dei capi o del datore di lavoro. La documentazione sanitaria, medica e psicologica, va costantemente aggiornata, richiedendo pareri e sostegno a diversi “attori” quali le strutture sanitarie pubbliche, gli psicologi, i medici competenti, le commissioni interne all’organizzazione, le rappresentanze territoriali dei lavoratori, e le associazioni che si occupano di mobbing.
Il passo finale è quello di rivolgersi all’autorità giudiziaria denunciando la situazione di mobbing.
La psicoterapia può aiutare le vittime di mobbing ad uscire da questo vortice di sofferenza, frustrazioni, umiliazioni apparentemente senza via di uscita?
Sicuramente sì. Su questo punto è necessario essere chiari. I consigli, in sostanza, sono di tre generi. Primo: evitare di “fare finta di niente” e tirare avanti nella situazione di sofferenza per mesi o addirittura per anni. Secondo: non medicalizzare la propria situazione, sopportandola con l’ausilio di psicofarmaci oppure, e ancor peggio, con l’assunzione di altre sostanze. Terzo: evitare di arrivare a chiedere aiuto allo psicologo ai limiti estremi della situazione, cercandone invece il supporto fin dalle prime fasi. Infatti, è proprio all’inizio di questo genere di situazioni che la vittima può agire in modo da rimodulare se stessa e riorganizzare il rapporto con l’ambiente, affermando la propria esistenza lavorativa e fronteggiando fin dall’inizio gli attacchi e le violenze.
Dal punto di vista degli iter di psicoterapia, se il mobbing emerge nella vita della persona come un fatto episodico o causato da elementi specifici e contingenti, la terapia potrà indirizzarsi in modo preciso su tali elementi: potrà, cioè, essere “focalizzata”, e quindi, in genere, di breve termine.
Nel caso in cui, invece, il mobbing fosse un vertice di una situazione psicologica globale di fragilità della persona, la psicoterapia sarà più ampia e prolungata nel tempo, dovendo aiutare il soggetto a ricostruire la fiducia in se stesso e altre qualità importanti per il benessere mentale e sociale.
In ogni caso, non si dovrebbe mai pensare che decidersi di chiedere aiuto allo psicologo possa essere visto come un segno di “pazzia”, di debolezza, di incapacità, o chissà di cos’altro!
Ringraziamo il Prof. Andrea Castiello d’Antonio, psicologo e psicoterapeuta, Professore Straordinario presso l’Università Europea di Roma. Dipartimento di Scienze Umane, Ambito di Psicologia http://www.castiellodantonio.it/
A.C. per ADVERSUS – In collaborazione cone Margherita.net